Attenzione agli spoiler.
L’animazione giapponese è principalmente nota per le serie, ma il mio punto di riferimento sono i lungometraggi di Kon, Takahata e Miyazaki. Questi tre autori a un certo punto della loro carriera hanno raggiunto sia la popolarità che l’indipendenza e il totale controllo artistico sulle loro opere.
Di questi film il primo che ho visto è stato La città incantata di Miyazaki tanti anni fa. Un caso banale perché è l’unico cartone animato giapponese ad aver vinto un Oscar. Allora manco sapevo chi era il regista, me lo fece vedere mia sorella e poi non lo rividi più. Però mi rimase impresso.
Scoprii davvero questo autore all’università, quando un compagno d’anno appassionato di anime mi fece vedere La principessa Mononoke.
Ora, io avevo già visto alla tivù un film di simile tematica: quello di Barbie in cui le fatine del bosco con la forza dell’amore fermano i falegnami cattivi. A me quel cartone aveva dato noia, perché io sono uno studente di fisica, un appassionato di tecnologia e macchine, mi faccio distrarre più dagli ingranaggi scoperti che dalle scollature: e lì quelle diamine di fatine distruggevano un bellissimo segaalberi cingolato. E le favole moralizzanti mi piacciono comunque poco in generale.
Però la storia della principessa Mononoke era raccontata così bene, diciamolo, così poeticamente, che non riusciva a non piacermi. A posteriori mi rendo conto che quello è stato il nodo che ha fatto diventare adulto il mio gusto artistico: di fronte al contrasto tra una storia che mi infastidiva e una narrazione affascinante, ho scelto coscientemente la seconda.
Dopodiché mi sono slurpato tutti i film di Miyazaki. Tra la forza della natura e dell’amore che salva il mondo, bimbi stupidi che si perdono nel giardino di casa e streghe che devono consegnare torte, sono stato forzato ad abbandonare la trama e avventurarmi nell’estetica. È più o meno cominciata in quel periodo la mia abitudine che quando supercazzolo qualcuno di film in qualche modo finisco per parlare di musica astratta.
Negli ultimi 7 anni ho ascoltato quasi esclusivamente musica classica, tunnel da cui sto uscendo solo recentemente, quindi perdonatemi se ora tiro fuori Beethoven per fare un esempio in realtà più generale: è che appare così nella mia testa.
Più che in altri autori è facile schematizzare le opere di Beethoven in tre periodi: nel primo si rifà ai modelli conosciuti, nel secondo trova la sua voce, nel terzo ha raggiunto l’indipendenza e fa un po’ il cazzo che gli pare. Dopo aver visto tutto Miyazaki, ebbi subito l’impressione che ci fosse una qualche struttura simile a portata di mano. Però, a parte riconoscere che da giovane faceva quello che gli dicevano, e che da vecchio faceva film sconclusionati, avevo poca sostanza.
L’ispirazione è arrivata tempo dopo quando ho letto il fumetto di Nausicaä della valle del vento, praticamente l’unico di Miyazaki. Superata con calma la vergogna iniziale sia di voler fare il letterato, sia di volerlo fare senza le giuste basi, mi sono lanciato in un’analisi.
A metà della sua vita, Miyazaki si trovò senza un ingaggio per un film o una serie. Gli proposero di pubblicare un manga: Nausicaä della valle del vento. Il successo iniziale fu sufficiente per procurargli la proposta di portarlo sullo schermo. Riuscì a imporre le sue condizioni e a non avere vincoli creativi. Come dice Herzog, la miglior dote di un regista è ottenere i soldi per fare quello che vuole: da lì in poi ebbe il suo studio di animazione e fece quasi solo lungometraggi decidendo tutto, dalla trama al singolo fotogramma. Il manga di Nausicaä finì molti anni dopo.
Nausicaä della valle del vento (1984) si apre con il logo del WWF, cosa che promette subito male. In effetti Nausicaä salva da sola tutto il mondo della storia solo con la forza dell’amore per la natura. Come è comune nei fantasy, la protagonista viene elevata a eroe leggendario e plasma completamente la sua realtà. Trovo che Nausicaä sia la realizzazione più spontanea, efficace e allo stesso tempo senza compromessi di questo topos tra le opere che conosco. Ciò che ora voglio mettere in evidenza è come questo eroismo venga progressivamente decostruito nei film successivi.
Anche in Laputa castello nel cielo (1986) i due protagonisti sono totalmente determinanti nell’esito di una vicenda molto più grande di loro. Però, mentre Nausicaä è una donna forte che lotta costantemente per ciò in cui crede, qui sono due ragazzini che vengono tendenzialmente sballottati in giro contro la loro volontà. Il modo in cui risolvono la situazione è un deus ex machina molto rapido, direi quasi che è un punto debole della trama. Però per come è realizzato a me appare anche con questo significato: è come se i protagonisti fossero stufi di questi adulti che lottano per grandi temi, per cose importanti, e zac, spengono tutto.
Il mio vicino Totoro (1988) è un film per bambini piccoli, ed è totalmente intimo e domestico. Sembra sempre che succeda qualcosa, ma in realtà non succede mai nulla, è tutta una narrazione del mondo di due bambini. Qui l’eroismo non esiste proprio.
Il film successivo, Kiki consegne a domicilio (1989), è ancora intimo, però concede alla protagonista il suo momento di gloria. Lo fa molto cautamente, cercando sempre di sminuire e umiliare la streghetta che parte in quarta pensando di contare qualcosa nel mondo. Quindi qui, dopo essersi preso una “pausa di riflessione” con Totoro, Miyazaki comincia ad andare esplicitamente contro agli eroi.
E infatti Porco Rosso (1992), il mio preferito sia per essere ambientato nell’amata Padania sia perché ci sono gli aereoplani, è un film in cui il protagonista è un combattente totalmente disilluso e i cattivi sono i fascisti. I fascisti sono quelli che più coltivano i miti e l’eroismo, quelli che credono incrollabilmente nel loro duce. Il porco non solo non sopporta i fascisti, non sopporta nemmeno le grandi storie d’amore: è solo un’idealizzazione fasulla di un desiderio triviale, come gli eroi che vogliono imporsi al mondo. Ma almeno su questo punto gli fanno cambiare idea.
Dopo Porco Rosso arriva il film da cui ho cominciato la discussione, La principessa Mononoke (1997): però tra i due c’è la significativa conclusione della storia a fumetti di Nausicaä. Se nel film finiva tutto bene senza ombre, sulla carta invece la storia diventa sempre più cupa e la buonità di Nausicaä vacilla. L’ultima parola ce l’hanno sempre i cattivi, e lei deve fare parecchie supercazzole per giustificare a se stessa il casino che sta combinando. La morale della conclusione è ambigua. Nausicaä è in parte ispirato a Dune di Herbert, che non ho letto ma che so avere un finale simile: quindi credo che a un certo punto Miyazaki avesse ben chiaro il tipo di morale antieroica che voleva raggiungere.
Ed eccoci alla principessa Mononoke. Qui si ritorna alle origini e c’è una principessa amica dei fiori che deve salvare la foresta dagli uomini stolti, proprio come in Nausicaä (e nel film di Barbie). Tuttavia, anche se l’impostazione iniziale è molto epica-eroica, il peso dei personaggi rimane bilanciato lungo tutta la storia, tanto che alla fine lo spettatore rimane un po’ confuso di fronte al finale: chi ha vinto? Sembra che abbiano stravolto tutto per non cambiare nulla. Questo film è quindi il risultato finale della riflessione di Miyazaki sull’epica. Tra l’altro Miyazaki dichiarò che sarebbe andato in pensione.
Da allora annunciare la fine della sua carriera dopo ogni film è diventata un’abitudine. Il film successivo, La città incantata (2001), l’ha consacrato come il più importante regista di anime. Qui c’è il perfetto bilanciamento di tutti gli aspetti, è un’opera priva di spigolosità. In effetti ha raccontato di aver eseguito un gran labor limae partendo da un lungometraggio di 3 ore e arrivando a una e mezza.
Da qui in poi, è nella fase in cui è in cima al mondo e si concede la massima libertà artistica. Ne Il castello errante di Howl (2004) la trama passa in secondo piano. Che importa sapere perché succedono le cose, quando tutte le scene sono un quadro?
In Ponyo sulla scogliera (2008), quello che a mio parere ha il miglior accompagnamento musicale, realizza nuovamente un film per bimbini come aveva fatto in Totoro. A me continua a stupire come per ben due volte abbia profuso un enorme impegno artistico in un’opera il cui target sono, senza compromessi, i bambini piccoli. Comunque Ponyo conferma la tendenza essendo permeato di un’atmosfera onirica, che va oltre ciò che può essere giustificato considerando che i bimbi non si accorgono dei buchi nelle trame.
L’ultimo film (ma ne uscirà un altro nel 2020) è Si alza il vento (2013). Questo è un vero e proprio cartone animato intellettuale. Mi chiedo se supererà questo livello di sega mentale nel prossimo.
Beethoven il processo di maturazione artistica non l’ha solo svolto, l’ha svolto rappresentandolo in musica pura. Fateci caso se ascoltate la Nona sinfonia. Chissà se, in questo senso, anche Miyazaki concluderà con una nona?